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Inidoneità alla mansione: le conseguenze per datore e lavoratore

2024-07-03 12:05

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Inidoneità alla mansione: le conseguenze per datore e lavoratore

L’esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro trova una particolare applicazione in caso di sopravvenuta inidoneità al lavoro registrata.

L’esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro trova una particolare applicazione in caso di sopravvenuta inidoneità al lavoro registrata dal medico competente.

L’esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, il cui perimetro d’azione è definito dall’articolo 2103 codice civile, trova una particolare applicazione in caso di sopravvenuta inidoneità al lavoro registrata dal medico competente.

In questo caso, infatti, alle disposizioni ordinarie è necessario affiancare le previsioni della norma a carattere speciale, definite -nel caso di specie- dall’articolo 42 del Dlgs 81/2008, secondo cui, in caso di inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro, «anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza».

L’accertamento dell’idoneità alla mansione può avvenire in momenti distinti, in funzione della periodicità stabilita dal medico competente nell’organizzazione delle visite mediche; pertanto, il giudizio di idoneità (o inidoneità) può derivare da visita medica preventiva (o preassuntiva, nei casi previsti dal Dlgs 81/2008), da visita medica periodica nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, da visita medica organizzata su richiesta del lavoratore stesso (e autorizzata dal medico competente), da visita medica prevista in caso di assenze per malattia o infortunio superiori a sessanta giorni, o, ancora, in occasione del cambio di mansione previsto dal datore di lavoro (qualora la mansione a cui sarà adibito il lavoratore sia soggetta a sorveglianza sanitaria, infatti, il cambio di mansione può perfezionarsi solo previo parere positivo espresso dal medico competente).

Il giudizio espresso dal medico del lavoro può essere di totale idoenità al lavoro, di idoneità parziale (corredata di precise prescrizioni o limitazioni), di inidoneità totale temporanea o di inidoneità totale permanente.

Avverso il giudizio del medico del lavoro datore di lavoro e lavoratore possono sempre ricorrere entro trenta giorni all’organo di vigilanza territorialmente competente (ASL) che, dopo eventuali ulteriori accertamenti potrà confermarlo, modificarlo o revocarlo; in ogni caso, il giudizio espresso dalla commissione medica competente non vincola il giudice che potrà giungere a conclusioni diverse tramite il proprio consulente tecnico d’ufficio.

Il giudizio di inidoneità

Nel caso in cui il medico competente emetta nei confronti del lavoratore un giudizio di inidoneità, le attività che devono essere intraprese dal datore di lavoro sono differenti, a seconda della temporaneità o meno dell’inidoneità stessa: da ciò deriva che un giuduzio temporaneo, conseguenza di una patologia o di uno stato di salute transitorio, non permettono la cessazione del rapporto di lavoro, ancorchè il periodo di inabilità possa essere caratterizzato da una lunga durata.

In questo caso, sarà onere del datore di lavoro applicare i precetti dell’articolo 42 del Dlgs 81/2008, secondo cui è necessario rinvenire modalità alternative di svolgimento della mansione o, in alternativa, destinare (per il periodo temporaneo di inidoneità) il lavoratore a mansioni differenti (equivalenti o meno a quella di origine) o a sedi di lavoro alternative.

Ove queste soluzioni non siano applicabili, è onere del datore di lavoro sospendere in via momentanea il dipendente dalle mansioni alle quali è addetto: in applicazione delle previsioni dell’ articolo 2087 codice civile, il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti; ove il datore decidesse, infatti, di adibire comunque il lavoratore alle stesse mansioni, potrebbe essere ritenuto responsabile di un eventuale aggravamento o compromissione dello stato di salute del lavoratore, con conseguente responsabilità, anche di natura penale.

Gli effetti della sospensione dal lavoro

In relazione alla sospensione del lavoratore dall’attività lavorativa, la giurisprudenza è concorde nel definire che il datore di lavoro non sia tenuto a corrispondere la retribuzione: l’orientamento giurisprudenziale maggioritario sostiene, infatti, che il datore di lavoro non sia tenuto al pagamento della retribuzione qualora le prestazioni lavorative non vengano prestate per divieto derivante dalle prescrizioni del medico competente; in assenza della prestazione lavorativa si può ritenere, quindi, insussistente anche il corrispettivo obbligo di retribuire la medesima (si citano, a titolo esemplificativo, le sentenze del Tribunale di Verona 6750/2015; Cassazione 7619/1995). Infatti, possiamo ritenere che il diritto alla retribuzione possa ritenersi valido “soltanto in caso di effettivo svolgimento della prestazione lavorativa, stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro” (Cassazione 4677 del 2006).

L’inidoneità permanente alla mansione

Quali sono, invece, le conseguenze di un’inidoneità permanente alla mansione?

Anche in questo caso le valutazioni del datore di lavoro devono essere molteplici: partendo dalla valutazione di ricorrere o meno avverso il giudizio del medico competente presso le sedi competenti e nei tempi stabiliti dall’articolo 41 del Dlgs 81/2008 (come sopra descritto), il datore di lavoro dovrà in ogni caso verificare la possibilità di ricollocare il lavoratore in altra mansione (garantendo comunque la retribuzione originaria), così come disposto dall’articolo 42 del Dlgs 81/2008, citato in premessa.

I passaggi operativi a cui è tenuto il datore di lavoro possono essere schematizzati come segue:

  1. valutare se l’attività svolta dal lavoratore può essere gestita in modalità agile e se tale modalità ne tutela lo stato di salute;
  2. valutare se in alternativa il lavoratore può essere adibito ad altre attività, equivalenti a quella svolta abitualmente;
  3. valutare, in alternativa, se è possibile adibire temporaneamente il lavoratore ad altra mansione;
  4. prevedere allo spostamento temporaneo ad altra unità produttiva, con condizioni di rischio inferiori e quindi accettabili;
  5. nel caso in cui non vi siano alternative, procedere con la cessazione del rapporto di lavoro.

Dall’analisi dello schema di cui sopra (espressione dei contenuti dell’articolo 42, Dlgs 81/2008) deriva come solo nel caso in cui non siano rinvenibili alternative al licenziamento, si potrà procedere con la cessazione del rapporto di lavoro.

Ma a tal proposito sono necessarie due riflessioni: la prima riguarda la comunicazione stessa di licenziamento, che dovrà illustrare al lavoratore tutti i passaggi operati dal datore di lavoro per tentare di mantenere in essere il rapporto di lavoro; la seconda riguarda la natura del licenziamento, che da sempre è stato classificato nell’alveo dei licenziamenti per ragioni oggettive: l’intimazione di un licenziamento di tal natura, potrebbe pregiudicare il ricorso alle agevolazioni contributive che sono collegate alle cessazioni per giustificato motivo oggettivo (non da ultimo, i cosiddetti Bonus Giovani e Bonus Zes introdotti -rispettivamente- dagli articoli 22 e 24 del Dl 60/2024).

Cit. “Il Sole 24 Ore”



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