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Molestie in ufficio, legittimo il licenziamento per giusta causa

2023-11-27 15:21

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Molestie in ufficio, legittimo il licenziamento per giusta causa

Per la Cassazione il datore ha l’obbligo di adottare i provvedimenti idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Per la Cassazione il datore ha l’obbligo di adottare i provvedimenti idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, dal momento che incidono sulla salute e sulla serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro, in base all’articolo 2087 del Codice civile. Ecco perché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro: non rileva la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e non si può, in contrario, dedurre che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato a un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’articolo 2087 del Codice civile, di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali. A pronunciarsi in questo modo, di recente, è stata la Cassazione, con la sentenza 20239, depositata il 26 settembre 2023.

Le azioni moleste possono dar luogo anche al risarcimento dei danni in capo al datore di lavoro, come si evince da casi in cui la Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, che, con riferimento alle molestie sessuali subite da un lavoratrice, aveva liquidato equitativamente il danno non patrimoniale, utilizzando, quanto al danno morale, il criterio dell’odiosità della condotta lesiva nei confronti di persona in posizione di soggezione, e, quanto al danno esistenziale, quello della rilevanza del clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e del peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice molestata in conseguenza dell’illecito subito (Sul punto si veda anche App. Milano 10 febbraio 2021 n. 1107; Cass. 22 settembre 2017 n. 22508).

La vicenda giudiziaria

Nel dicembre del 2017, un ente giuridico avente natura di Fondazione, a seguito di rituale esperimento della procedura disciplinare di cui all’articolo 7, della legge 300/1970, licenziava per giusta causa un lavoratore, sulla scia di una serie di gravi elementi debitamente contestati, che facevano riferimento a due episodi (indicati nel rispetto del principio di specificità che deve informare la contestazione disciplinare): il primo, risalente alla fine di ottobre, avrebbe configurato sic et simpliciter un’ipotesi di molestie, per essere stato il dipendente accusato di aver palpeggiato una collega durante l’orario di lavoro; nella seconda occasione, collocata nel luglio precedente, aveva invece rivolto dei commenti gravemente inopportuni e alla presenza di altri nei confronti di un’altra collega.

Il lavoratore impugnava il licenziamento avanti al Tribunale di Palermo, competente territorialmente, il quale emetteva, nella fase sommaria del procedimento, un’ordinanza favorevole al lavoratore dichiarando così l’illegittimità del provvedimento espulsivo e contestualmente accordava al lavoratore la tutela prevista dall’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dalla legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero).

La Corte d’Appello di Palermo, adita a seguito di reclamo proposto dal datore di lavoro, riformava il dictum di primo grado e accertava la legittimità del licenziamento irrogato, condannando per l’effetto il lavoratore alla restituzione di tutte le somme ricevute a titolo di risarcimento del danno dalla data del licenziamento e sino alla reintegrazione, maggiorate degli interessi e delle spese legali, imputate al lavoratore in ragione del principio di soccombenza.

La linea della Cassazione

La Cassazione smentiva la ricostruzione del ricorrente, ricordando come già il Tribunale di primo grado (dunque l’autorità che aveva emesso la sentenza più favorevole al ricorrente) avesse evidenziato le finalità tutt’altro che goliardiche della condotta del lavoratore, certamente non riducibile a mero cameratismo, e anzi volto a causare una mortificazione psicologica della destinataria della sua “pacca”, a fortiori in ragione del ruolo gerarchicamente sovraordinato svolto dal ricorrente (cui le due dipendenti destinatarie dei comportamenti contestati si rivolgevano dandogli del “lei”).

la Cassazione respingeva la ricostruzione attorea in virtù della quale il licenziamento (e la sua valutazione di legittimità effettuata dalla Corte d’Appello) sarebbe avvenuto “in applicazione” del combinato disposto delle norme, sia di legge sia di contratto, richiamate nel motivo di ricorso, laddove invece la Corte palermitana si era limitata a richiamare gli articoli violati, censurando tuttavia la gravità in sé della condotta del lavoratore, di talché il motivo di ricorso per Cassazione, concretamente, si traduce nella richiesta di una diversa valutazione circa la gravità della condotta stessa, dalla quale, secondo il lavoratore ricorrente, non sarebbe emerso “alcun nocumento all’organizzazione lavorativa della Fondazione”: circostanza mai emersa nel giudizio, e certamente impossibile da introdurre quale fatto nuovo in sede di legittimità.

Per tutte le ragioni sopra riportate, la Cassazione rigettava il ricorso, valutando definitivamente come legittimo il licenziamento irrogato e condannando il lavoratore al pagamento delle spese processuali.

Cit. “Il Sole 24 Ore”



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